lunedì 30 dicembre 2013

ti porto via con me

Quest’anno ho imparato che non è mai troppo tardi. Che mai dire mai. Che molte volte sei tu ti che porti via le cose. Invece a volte ti portano via loro.

L’altra notte mi sono fatta portare via da un bagiagio. Nome volgare per un mezzo di trasporto in realtà molto nobile, il bajaji, termine swahili per intendere una moto da un numero indefinito di posti, (roba che in Grecia o nel nostro Meridione sono dei principianti), usata dai kenioti per spostarsi da un posto all’altro spendendo circa 100 scellini (1 euro).Tutti rigorosamente senza casco. E quindi, in un posto in cui viaggiano senza casco ed ogni tre per due salta la corrente, a mezzanotte mi sono presa il bagiagio anche io. Cosa c’è di meglio di una musungu che si prende il bagiagio, e per salirci deve tirarsi su la gonna rimanendo quasi in mutande? Di meglio, nella parte di mondo di serie A, un infinità di cose. Da questa parte dell’ Equatore, praticamente nulla. Mi porti via con te, per cento scellini?

Prendo il bagiagio, mi attacco al portapacchi. Partiamo. Il motore fa lo stesso rumore delle palline che si muovono nell’urna prima che la mano di un bambino bendato estragga quella giusta. Non si vede nulla, i colori si muovono tra il grigio scuro, il nero ed il grigio cenere. Non vedo niente, è una bella sensazione.  Bello sentire l’aria in faccia, gli occhi chiusi, le zanzare che non hanno tempo. L’aria in faccia, non vedere il nulla, i capelli che ti finiscono sulla bocca. L’aria in faccia, la camicetta che si allarga come un palloncino. Ed ancora l’aria in faccia, e la tua sicurezza nel guidare. E la mia consapevolezza che se cado, me la sono cercata. Mi porti via con te, anche senza casco?

I kenioti non hanno ritmo nella vita, ma ce l’hanno nel ballo. Lo si vede al Come back, famoso locale di Watamu, in cui le donne diventano donnine, gli uomini diventano lupi, le mie pantofole rimangono fuori, e diventano infradito colorate fatte di perline, come si usano qui, e che non riesco a trovare. Diventano un sedere che sculetta, un viso col trucco che cola, una bottiglia di Tusker, birra locale sorseggiata al bancone, per evitare di parlare, evitare di pensare, senza respirare. Mi porti via da qui?

Ti porto alle rovine di Gede, cittadella dicono abitata dai fantasmi, una volta abitata invece da ricchi arabi dentro le mura, in case di corallo, fuori i poveri, in case di fango e palma di cocco, fuori le mura, in mezzo alla foresta pluviale, in mezzo agli animali. Città che ha visto un susseguirsi ed incroci di portoghesi, capitanati da Vasco Da Gama (che si è meritato un bel monumento bianco a Malindi), di monete cinesi, di incursioni somale, per poi finire abbandonata nel 1400  forse a causa delle cose che ti portano via, forse a causa di un fiume che ha cambiato il suo corso, e che si è portato via con sé la vita.
ingresso al palazzo del sultano

panoramica delle rovine


Mi sono fermata al chioschetto, ho comprato per me e la guida una coca (guida privata, per me e me stessa, perché qui io e me stessa ci trattiamo bene). Mi sono seduta sulla panca. E c’era questa bambina che mi guardava. Testa quasi rasata, vestitino rosa cangiante, una bella macchia di sugo credo vicino al collo. Le ho chiesto come ti chiami, mi ha detto asante, grazie. Ho dato per scontato che sapesse l’inglese, ma non aveva capito nulla. Si chiama Betty, nome inglesizzato per un equivalente swahili che mai saprò. Mi ha guardato, il collo come le modelle del Modigliani. Continuava a non capire nulla, entrava ed usciva dalla cucina, e portava il ketchup sui tavoli. Poi è tornata a sedersi e mi ha sorriso. Non un sorriso perfetto, ma un sorriso che ti avvicina, un sorriso che tira un sorriso, come i baci sulle palpebre, come le ciliegie, un sorriso che se ti domando “Mi porti via con te?” , scommetto che dici si.

I due denti davanti separati da uno spazio. Tutt’altro che minuscolo. Un gran bello spazio. Dente spazio dente. In quello spazio ci passa la punta della lingua. In quello spazio ci passa un respiro. In quello spazio ci passa la barca col fondo di vetro per fare lo snorkeling a Malindi, sempre che non piova a Nairobi, che altrimenti non si vede un tubo. In quello spazio ci ho visto tutto l’anno che sta per finire, l’anno delle cose che ti portano via.

In quello spazio c’è la cosa che ti porta via quando ti dicono che sei brava, ma siamo spiacenti. E’ lo stesso spazio che hai occupato tu, testa bassa e pronti a combattere, perché le battaglie si vincono insieme, mi facevi passare dal piangere al ridere nello spazio di un niente, hai sempre avuto questo potere, per poi mollarmi sbiadita ed inutile con gli occhi pesti per il troppo pensare. Sono cose quelle, sì che ti portano via.

In quello spazio di dente spazio dente ci ho visto i cocchi per terra, i cocchi di Watamu, i cocchi che ho bevuto sul fiume Pampa, in Kerala.

perché del cocco si porta via tutto (distese di cocchi sulla strada per Guede)

Dente spazio dente. Quel famoso biglietto di sola andata che ti porta via.
Dente vita dente. Quello che quest’anno mi ha portata via, mi ha portata qui.
Dente vita lingua dente. Quello che vuol dire aprire le persiane.

Dente pensieri scrittura dente. Capire che non hai paura delle parole, che hai voglia di farti portare via da loro.

Dente parole dente. Riconoscere che se quest’anno nessuna crisi mi ha portata via, un po’ lo devo anche a loro, perché le parole, intendo quelle che senti veramente, che siano dette, urlate, sottintese, o semplicemente scritte su di un blog nato così, per caso, fanno proprio bene.

E visto che mi fanno bene, e come dico sempre, sono la persona con cui dovrò convivere per il resto della mia vita, ecco quello che mi auguro per il nuovo anno,-il“mi” deve essere inteso come ognuno di voi, perché questo è l’augurio che faccio a tutti.

Non mi auguro tutte vittorie, le sconfitte servono a crescere. E ad abbassare la cresta.
Non mi auguro solo fortuna, quella mi bacia quando vuole lei.
Non mi auguro di essere sempre felice, perché tanto so già che non sarà così.
Non mi auguro di trovare l’amore, quello verrà quando meno me lo aspetto.
Non mi auguro tutti sorrisi, perché ci saranno lacrime, quelle che il mal di testa ti porta via.
Non mi auguro un paio di ciabatte, perché la strada è ancora lunga, meglio munirsi di scarpe robuste.

Mi auguro invece di camminare sempre a testa alta.
Mi auguro invece di avere sempre addosso la serietà che mi hanno insegnato.
Mi auguro infine di fare quello che ritengo più giusto, sempre. Perché farlo vuol dire essere liberi (ed intendo libertà di azione e soprattutto di pensiero), che è la cosa più bella di tutte.

Ciao 2013, indossa il tuo sorriso migliore, e metti in scena il tuo ultimo atto, vieni, ti porto via con me.


vi porto via con me

Auguri, a tutti voi, per tutti voi, da tutta me.

E.

domenica 22 dicembre 2013

Marakaribu (karibu significa "benvenuto" in swahili)



Jambo,

Jambo Bwana

Habari Gani
Mzuri Sana
Wageni Wakaribishwa
Kenya Yetu
Hakuna Matata
Kenya Nchi Nzuri
Hakuna Matata
Nch ya Maajabu
Hakuna Matata
Nchi Yenye amami
Hakuna Matata
Hakuna Matata
Hakuna Matata
Watu Wote...
Hakuna Matata
...Wakaribishwa
Hakuna Matata
Hakuna Matata


Ciao

Ciao Visitatore 

Come va?
Molto bene!
I stranieri sono benvenuti
nel nostro Kenya
Nessun problema
Il kenya è un bel paese
Non c’è problema
Un meraviglioso paese
Non c’è problema
Un paese pieno di pace
Non c’è problema
Non c’è problema
Non c’è problema
Tutti sono…
Non c’è problema
…Benvenuti
Non c’è problema
Non c’è problema







I kenioti al telefono non perdono tempo. 

Nonostante la loro vita, e di conseguenza anche la mia, visto che il destino mio e quello di questo popolo dal labbroni e culi sporgenti  si stia incrociando, sia scandita da un sottofondo di POLE POLE (piano piano). Dove poi tu vada, non si sa.
Al telefono non dicono manco “Ciao" vanno dritti al punto, e poi riattaccano. Se proprio sei fortunato, ti salutano. Se proprio.

I kenioti, come tutti i popoli che vivono la strada, non sono discreti. La strada diventa il libro su cui disegnare con il gesso il gioco della settimana, lanciano un sasso e vedono che casella esce fuori, che cosa possono imparare oggi, che nuove parole ascolteranno, che nuovi costumi tireranno fuori i musungu (ovvero noi poveri bianchi) per poi farli propri. Farli propri alla maniera loro, imitando lo stile italiano e condendolo di un bel fifty cent, tamarro come piace a loro.
Tamarri sono i nomi che danno ai loro tuc tuc, delle simpatiche ape car con cui scorrazzano per le strade. Il mio personale al momento si chiama NEVER WALK ALONE. Come direbbero i latini In nomen omen.


never walk alone



Ho fatto un tragitto di circa quindici minuti. Tutto quello che poteva sballonzolare, ha sballonzolato. Mi sentivo come una patrizia sulla sua lettiga, mentre un mare di occhi labbroni e gambe secche mi seguiva con lo sguardo. E dentro c’era una donna, Una donna, e bianca. Forse bianca prima di donna. In una parola, appunto, una musungu.



Le musungu, ovviamente sono gettonate. Le musungu ti fanno vedere come potrebbe essere la vita di serie A. I vestiti, lo smartphone, gli occhiali da sole specchiati. Ti fanno assaggiare un cucchiaio di panna cotta. Potresti avere tutta quella che vuoi, e forse anche alla menta, se solo fossi nato nel mondo di serie A. Nella parte di mondo che in fondo in fondo è perfetta, diceva una volta J.AX.
Peccato che i kenioti, brutali al telefono, lenti nella vita, discreti quanto una portinaia, non abbiano potuto scegliere più di tanto. Si sono ritrovati di qua dall’Equatore, in un Paese che ha una natura rigogliosa, e che offre loro tutto e tanto. Si sono ritrovati sulla lingua di sabbia dell’atollo di Mayungu, con la bassa marea, hanno fatto le foto, come quelle dei calendario  e preso in mano la stella marina. Ma poi si sono distratti a cucinare il pesce fresco, la marea è salita, e loro sono rimasti sull’atollo, e anche quando la marea saliva saliva, saliva, loro sono rimasti lì, immobili su quel puntino di nulla,  a farsi inghiottire dall’Oceano.


spiaggia di Mayungu

Eccoli i miei nuovi amici kenioti. Lenti, sorridenti, gentili.
Mangiano la polenta col baccalà, si definiscono polentoni. Mangiano la polenta con i fagioli, si definiscono polentoni. Mangiano la polenta con il pollo. Usano ciabatte fatte con rimasuglio di copertone di pneumatico.


Le stelle del loro cielo brillano come diamanti, ma tentano di vendere anche quelle. I capelli delle loro donne sono corti e formano piccoli cornetti di lanugine. Apprezzano i miei capelli, li definiscono una parrucca.
Il loro linguaggio è soffice come un batuffolo di cotone, la gi sa di gelato, e la k cambia suono a seconda del nome in cui la pronunci. Quando sorridono, la lingua sbatte contro i denti. Quando ridono, tirano fuori la lingua come i calciatori. Quando ridono, ridono di gusto, come i bambini. Una risata piena, che fa lo stesso rumore del cocco che cade sul prato.
Possono contare quello che conoscono mettendo un piede davanti all'altro: tanto basta per misurare quel fazzoletto di spiaggia, la terra della capanna in fango, la strada che fanno per prendere il taxi parcheggiato lì fuori e portarci a spasso i turisti.

Eccoli i miei nuovi amici kenioti. Lenti, sorridenti, gentili. Decisamente non monogami. O comunque con un concetto tutto loro. Si sposano fanno figli si separano vanno a convivere si risposano si ri-separano. E molto spesso i figli restano con i padri. E con le nonne.

La famiglia come un bajaji, una moto dall'indefinito numero di posti. Chi arriva, si siede. Chi arriva è il benvenuto. Come il jambo jambo. Come il Kenya. Perchè la famiglia, come il Natale, è dove lo porti.
Auguri. Con tutto il mio corazon. E.

perchè il Natale è dove lo porti







lunedì 16 dicembre 2013

Keep on movin'

Il mio  oroscopo ad un certo punto lo aveva predetto.
Nella seconda parte dell'anno avrei fatto un lungo viaggio. 

Che poi non sarebbe stato un viaggio solo, occhei. Che poi avrebbe creato ad un certo punto un vero e proprio ingorgo, occhei di nuovo. Che sarebbe stato forse un viaggio solo, ma dentro me stessa, forse, ma sa un pò di frase fatta. Che sarebbe stato piacevole, sorprendente, e mai banale, lo confermo.

Apro le mie scalcinate valigie rosa, si, proprio quelle, che quando le persone le vedono sul rullo, pensano siano le valigie di Candy Candy, ma intanto loro svettano malconce e scalcinate, in un mare di valigie nere. Le riapro, dicevo, e le riempio fino a scoppiare, prendendo a pugni il beauty, se serve. Destinazione: Mombasa, Kenya.
le mie adorabili scalcinate


Kenya, che vuol dire istinto. L'istinto è quella cosa, perché diversamente non saprei spiegarla, che sa già quello che ti serve, prima che tu te ne renda conto. Prima ancora che il cervello si sposti da ON a HO CAPITO, (sottotitolo "buttiamoci") pulsante quest'ultimo che sfortunatamente non tutti hanno.

Istinto, valigie, pensieri, Kenya.

All'istinto ho pensato, mentre mi trovavo sulla jeep nel parco dello Tsavo Est, 15.000 ettari di natura assolutamente incontaminata.


Ingresso allo Tsavo Est

Un grosso cerotto marrone di terra rossa divide in due le verdi distese di erba brillante, perché è vero che nella savana fa molto caldo, ma è altrettanto vero che ci sono delle piogge intense ed improvvise, che oscurano e poi rasserenano il cielo sopra di me. Addio tramonto, mi ha suggerito l'istinto, seguito poi dal pulsante, "Ho capito, non vedrò il tramonto."

Cielo e terra sono separati da una linea di tratto pen. Tirata con un righello. 
Certo che chi l'ha tirata doveva avere la mano più larga, il cielo schiaccia la terra. Le sue nuvole schiacciano la terra. I leoni schiacciano la terra con il loro passo, all'alba, dopo aver cacciato tutta la notte. I pensieri di tutti quelli che sono con me sulla jeep schiacciano la terra. Perché durante tutte queste ore alla ricerca dell'istinto, il cervello si fa dei gran viaggi. Il cervello diventa animale, oppure istinto,  oppure le due cose insieme, e lo puoi vedere correre nella savana, si mangia le foglie insieme alle giraffe, attraversa la strada tendendoti la mano, come fa la scimmia con i suoi cuccioli.
l'alba africana


L'istinto, fuori, il cervello pure, la terra schiaccia il cielo, gli animali la terra, la jeep la strada infangata.

"Ed i tuoi pensieri, dove sono finiti?"
" Te l'ho detto, schiacciano la terra"
"Ok, e cosa dicono, a cosa pensi, mentre schiacciano la terra, mentre la jeep guada il ruscello, ed il fango resta attaccato alle ruote motrici?"

Penso all'elogio funebre di una persona cara, e di quanto mi mancherà quando non ci sarà più. Penso ai colori della bandiera kenyota, come il rosso del sangue dei suoi martiri.
Penso alle palme da cocco, di quanto ne vorrei una in giardino, e di quanto cocco stia mangiando in questi giorni. Penso al fiore di frangipane, il mio preferito, di cui la strada che porta a Malindi è piena (pianta assolutamente non indigena, ma portata dagli indiani). Penso al succo di mango, ai suoi frutti rotondi e arancioni schiacciati in cestoni di legno che vendono ai bordi delle strade, penso a quanto ne bevevo ad Awlad Baraka, vicino Marsa Alam, ed a quello sorseggiato il giorno prima al Karen Blixen, fra i bar più famosi di Malindi.
Penso che sono stata fortunata, ho visto 4 leoni, uno con la criniera, che zoppicava, che aveva perso un combattimento con un altro capobranco, perché qui nella savana una volta che i giovani leoni sono cresciuti- ovvero una volta che è cresciuta loro la chioma, ovvero intorno ai 10 anni- i maschi sono scacciati dal capobranco, alla ricerca del loro istinto, di un altro territorio da controllare, di una leonessa, e se nella prima settimana di dominio del nuovo branco, se non sono stato bravo a trovare del cibo per la mia nuova famiglia, io i cuccioli di quella leonessa, e del leone che ho appena sconfitto me li mangio.
Io ho la criniera, sono il re della savana. Non c’è animale che mi possa cacciare. Nessuno mi può mangiare. Sono il vero e solo predatore. E mentre ti abbeveri sulle sponde del fiume, di notte, devi stare attento, perché io ti attacco. Mentre sei vulnerabile, mentre il tuo istinto della sete ha il sopravvento, il mio istinto da predatore è più forte del tuo. E non ho pensieri.

Quando sei davanti al cerotto di terra, respiri la libertà, ti senti invincibile. Invincibile da mandare giù l’incazzatura, perché non vedi il tramonto. Invincibile come la fortuna di sapere che nei tuoi occhi si leggono i colori del mondo. Invincibile da sentirti simile alla testa rasata del Masai che fa da guardia al campo tendato con la sua tunica rossa, le sue collane di perline.
Invincibile come l’alba, che scalda le tende ed illumina il fiume Galana, invincibile come il Mal D’Africa, che tanto arriverà. Oh, se arriverà.

Invincibile come pretende di essere la corsa dell’istinto, la corsa del Kenya.

Ero in aeroporto, ho visto delle zebre, ho visto una scritta:

“We’ve had a great run. Keep on running, Kenya.”*

*slogan del 50°anniversario dell’Indipendenza del Kenya dalla dominazione inglese, si festeggia il 12 dicembre.



E.

mercoledì 4 dicembre 2013

fine giugno, ovvero circa quattro mesi prima



Mi ricordo che stavo svuotando l'armadietto, era tutto troppo in alto, come al solito cercavo sbadatamente di recuperare la mia tazzina senza spostare il resto. Avevo fatto male i calcoli. La tazzina l'ho salvata, quella sì, piccolina, bianca, con il logo di Starbucks, regalatami per Natale, dicembre 2009, Sharm. Il piattino, bianco, sbeccato, anonimo che so per certo che è servito anche come ciotola per il gatto in un paio di occasioni, ha avuto sorte peggiore. 

Insieme al piattino, nel casino di quel giorno, ho perso anche un segnalibro, direi il segnalibro. Il mio preferito, che rappresentava la Nana del Mantegna, che guarda con aria irriverente e superba dal suo balconcino, acquistato in una gita fuori porta a Mantova, anni e diversi chili fa.


Camera degli Sposi, A. Mantegna

Quindi segnalibro sparito, forse in qualche libro, più probabilmente dimenticato in qualche scatolone che ha abitato lo studio per i tre mesi successivi alla mia estate greca. Piattino rotto, nonostante la tazzina continui ad essere la mia preferita. Vestiti sul sedile dietro, mentre li lanciavo nella macchina di mio cugino, attaccapanni nei cartoni, la testa ed il mio futuro per strada, odore di piscio di cane agli angoli, meno male che non pioveva, se no sai che casino, butta tutto dentro, poi non so quando metterò a posto.

"Quando hai l'aereo?" 
"Tra due giorni, devo ancora fare tutto."
"Massì dai, fai solo bene, qui che stai a fare?"
 "Massì, boh, poi ci penserò, a quel che sarà."

Il massimo della conversazione, quel giorno di fine giugno. Sprecare il minimo del fiato, quel giorno di fine giugno. Il minimo dei pensieri, ma il massimo di quelli stronzi, quel giorno di fine giugno.

Quel giorno di fine giugno, è cominciata la mia  vitanumero.

E.