martedì 11 febbraio 2014

if we ever meet again

“Il nostro spirito è veramente la nostra ultima risorsa. Quando sembrava che tutto fosse perduto, quando rimasi sola nel vento accanto alle mie tombe, sentii che quello era il momento per rialzare la testa e guardare di nuovo l’Africa.”
I dreamed of Africa, “Venuti dal cielo”, K. Gallmann

Due sono gli insegnamenti che per sempre mi ricorderanno i miei genitori.

1 Sii sempre te stessa,e non avere mai paura di dire quello che pensi (frase preferita da mia madre, insieme a il sangue non è acqua).

2 Non ti voltare mai indietro (incitamento di mio padre quando facevo la corsa campestre alle elementari, che però può benissimo essere applicato alla vita di tutti i giorni).

Kuki Gallmann, gemelli come me, nata un giorno e parecchi anni prima, ha vissuto fino in fondo questi insegnamenti appuntati come spilli, arrotolando la corda della vita al suo porto sicuro, l’Africa, il Kenya in particolare, che le ha dato tutto, e tutto le ha tolto.

E nella settimana di San Valentino, annunciato qui in Kenya da striscioni per le strade, e considerato una vera e propria festa, la sua testimonianza  di amore per la vita e per il Kenya regalano una luce diversa a questo giorno, la voce di un insider.

Kuki nasce a Treviso, da padre medico e soldato, sfuggito alla morte,e da una madre, che diventerà in seguito una famosa storica dell’arte. Come direbbe la mia, di madre, il sangue non è acqua.

Circondata da affetto, cultura, senso del rispetto e della famiglia, Kuki si innamora a vent’anni. Lui è Mario, giovane della Venezia bene. Si conoscono, si amano, con determinazione si sposano, la famiglia di lei non li ostacola, convinti come sono della fiducia che ripongono nella loro figlia.

Nasce Emanuele, ma il matrimonio finisce.

Da un fallimento rinasce Kuki. Nonostante di lì a poco un incidente in macchina con degli amici, tra cui il futuro amore della sua nuova vita, la faccia restare quasi zoppa. Il Suo Futuro Amore perde la moglie, rimanendo giovane, bello e vedovo con due figlie.

Lei è giovane, separata, zoppa, curiosa.

Lui le tiene compagnia durante il suo calvario di vai e vieni dagli ospedali, Lei si interessa all’Africa di cui lui parla e di cui lei ha sempre sentito parlare da suo padre, che molto ha vissuto tra i Tuareg nel nord del Continente nero.

Lui se ne frega della sua gamba più corta, perché, come ho letto in una intervista, “ci si innamora di chi ci si innamora.” Punto.

E così, dopo un paio di vacanze, in cui a decidere il rientro in Italia sono le scadenze dell’operazione che le permetterà di camminare di nuovo, Kuki e Paolo impacchettano sogni, desideri, figli (tre in totale, due di lui e uno di lei) e si trasferiscono. Nuova vita, nuove sfide, nuove corse con la gamba aggiustata, un Kenya da assaggiare.

Comprano la proprietà di Ol Ari Nyiro, tenuta diventata oggi simbolo stesso della sua vita spesa per il Kenya, che all’epoca ospitava distese di verde, rinoceronti, elefanti, laghi, montagne.  Trecentosessantagradi di Africa, insomma, e che fa da sfondo allo scorrere del tempo che passa, nell’indolenza dei colori africani, quando il sole crolla, ed il crepuscolo è un foglio accartocciato.

Paolo ed Emanuele, Kenya
La vita spesso non conosce happy ending, questo lo sappiamo. Le cose brutte capitano anche e soprattutto alle persone buone.

Paolo muore in un incidente stradale a Nairobi, mentre sta andando a comprare una culla per la figlia che aspettano, lui e Kuki.

Muore, lei lo sente. Ha sempre avuto una specie di sentore per le disgrazie, Kuki.

Muore, e muore un pezzo di lei. Anno 1980, Kuki non ha ancora 40 anni.  Il nodo in gola, il cuore che si spezza, lo senti fare crac, come una trave di legno che cade dal soffitto.

Paolo era la vita, la porta su cui lei si era affacciata, la promessa di una nuova vita, il profumo del tamarindo che si spande per l’isola di Gorè in Senegal. Paolo era l’Amore, senza tanti giri di parole, che arriva quando non te lo aspetti, che ti fiuta come una preda, e ti porta via.

Paolo viene sepolto nella terra, come si usa qui, vengono sparati colpi di fucile, passato da cacciatore, e piantata sulla tomba un’acacia gialla.

Raramente piango per un libro, qui mi sono ritrovata a piangere come una pazza agli orari più impensati, perché traspare il dolore puro, una donna che in Africa c’è venuta per un motivo, ed ora che il motivo se n’è andato si ritrova incinta, vedova, con mille acri sotto i piedi, sopra un cielo di stelle, una tenuta da amministrare, ed un bambino che di due padri che aveva una volta, ora non ne ha nemmeno uno.

La paura di non farcela si vede, il dolore della morte si sente, esce dal libro e ti acchiappa per la gola e ti butta dentro, in mezzo ai pokot dai lunghi capelli, in mezzo alla muta di cani che ti tengono compagnia, Kuki.

Nasce la piccola Sveva, fotocopia del padre. Bella bionda solare. Kuki un po’ invecchia, ma tira avanti. Non ti voltare indietro.

Chi rimarrà per sempre fermo sarà Emanuele. Emanuele è destinato a restare giovane. Emanuele ha 17 anni, carattere sereno, passione pericolosa, per i serpenti. Non a caso, e Kuki se lo ricorda, il primo essere in cui Emanuele si è imbattuto, in terra d’Africa, è un serpente.

Emanuele li studia, li cerca, li cattura, ne ha uno personale, il suo primo, dal nome Kaa, che gli compra proprio sua madre, perché pensa che la passione non vada ostacolata.

Emanuele fa l’uomo di casa, ama le ragazze, ama gli amici, ma ama i suoi serpenti. Soprattutto i suoi serpenti. Come ama sua madre, che non vuole fare preoccupare, ed a cui non racconta di essere stato morso altre volte, da questi essere striscianti.

Fino a quel mattino. Anno 1983. Emanuele ha i pantaloni kaki, le pinze per i serpenti, e sta andando a togliere il veleno da una vipera soffiante. La madre lo vede, solito presentimento. Mentre cerca di scacciare i brutti pensieri con una bella doccia, lo sente. Grida, urla, torna in cucina, e vede il figlio esangue.

A nulla vale la corsa disperata a cercare soccorso. Come tutte le cose belle, anche Emanuele ha una fine. La sua fine, per colpa dell’essere che più amava. Beffa del destino.

Il funerale di Ema è tuffarsi di pancia nell’acqua, anche se sai che fa male. Ma vuoi vedere quanto farà male. E’ graffiarsi il braccio con la foglia puntuta di un’acacia. Lo sai che fa male, ma vuoi vedere quanto. Il funerale di un figlio è una cosa contro natura, e fa schifo.

Inutile dire che pensi che la madre farà un bel falò di tutti quei serpenti. Inutile dire che ho pensato “ma che passatempo è, dategli una pistola e facciamo prima”. Poi ti trovi di fronte l’amore di una madre, che è la cosa più grande del mondo. Le madri perdonano, sostengono, asciugano le lacrime. Incoraggiano. Quello che hanno fatto i suoi con lei, nonostante sapessero che il primo matrimonio sarebbe finito. Quello che lei ha fatto con il figlio, nonostante il presagio della sua breve meteora l’abbia sempre accompagnata. E lei, per onorare la memoria del figlio, e non farsi divorare dal dolore, libera tutti i serpenti il giorno dopo la sua morte.

Nell’antichità gli dei punivano i gesti contro natura. La natura è Dio, e se tu lo sfidi, questo Dio, come funziona? Sei stato ubris (tracotante, peccatore), per cui ora aspettati di tutto.

Ma se è il mio Dio, o il tuo, a scegliere che la natura veda contro sé stessa, come funziona? E’ lui il superbo, non io. Non ti voltare mai indietro, anche se vorresti.

Dopo pagine e pagine di dolore, dopo che viene piantata un’altra piccola acacia gialla sulla tomba del figlio, che riposa accanto a quella del marito, dopo che tutti le dicono di tornare in Italia, Kuki capisce.
Che quella è la sua casa, cosa che ha sempre saputo. Che ha dei doveri verso una bambina bionda che la guarda con occhi sgranati. Che se non vuole impazzire dal dolore, deve reagire. E reagisce come può fare un essere umano, dedicandosi a che la memoria delle persone che ci sono state strappate resti per sempre, e lasci un segno tangibile, oltre le orme sulla terra battuta.

Nasce così, ad un anno di distanza da tutto quel dolore la Gallmann Memorial Foundation, organizzazione che si occupa di promuovere progetti educativi per salvaguardare e tutelare l’ambiente. La tenuta di Al Ori Nyiro diventa sempre più spesso rifugio di elefanti e rinoceronti terrorizzati, vittime della follia del bracconaggio, la domanda di avorio cresce costantemente, ed il Kenya scopre di essere anch’esso un paese da bere, che vende i suoi figli in cambio di pochi soldi, e scarsa gratitudine. Uno fra i compiti della fondazione, è quello di proteggere i rinoceronti neri, all’epoca della scrittura del libro circa 46 esemplari, la popolazione più numerosa conosciuta in tutta l’Africa orientale al di fuori dei parchi nazionali.


Kuki è testimone di un episodio senza precedenti, nella storia del Paese, un segno di coerenza, deciso dal Presidente Moi e dal suo amico Richard, presidente del Kenya Wildlife Department, istituzione parastatale che si occupa della protezione della fauna selvatica del Paese. Un rogo di circa dodici tonnellate di avorio (valore di circa 3 milioni di dollari) per dimostrare che il Paese aveva scelto da che parte stare. Dalla parte del Kenya e degli animali. E' il 18 luglio 1989.

Il simbolo della fondazione, neanche a dirlo, sono le due acacie gialle, che ora crescono alte ed intrecciate una nei rami dell’altra, e svettano sulle tombe di Ema e Paolo. Gli amori della sua vita.

A ricordarci che ci si innamora di chi ci si innamora.

Che l’amore non muore mai.

Che spesso camminiamo fianco a fianco, ma non ci rendiamo conto del privilegio finché non rimaniamo soli nel viaggio.

Che accumuliamo ricordi, come vecchi abiti usati, istantanee di una vita, anche se sfocate.

Che nonostante tutto, ci diciamo addio molte volte, ma non pensiamo che possa essere quella definitiva.

Che l’amore e la morte sono molto più vicini di quello che si crede. Sono due punti fermi nella vita, l’inizio e la fine di tutto. L’inizio e la fine del viaggio. Accadono, e basta.

I passi che restano, gli incroci lungo la strada, l’album da colorare, quello è tutto per noi.

Maisha Marefu, lunga vita a chi mi dedica un po’ del suo tempo. E a Daniela, che mi sta insegnando a spingere il mio orizzonte un po’ più in là, e che mi regala il suo tesoro più grande, le sue emozioni.


E.

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