Aprite gli occhi. E provate a
guardare in modo diverso. Oltre, semplicemente inclinando la testa e guardare
cosa c’è tra il punto luminoso sopra di voi ed il soffitto scuro che qui
chiamano cielo. Io lo sto facendo da un po’ di sere. E devo ammettere che lo
spettacolo merita. Sembra di vedere tanti
fili, come quelli plastificati che tengono le lucine bianche che si usano come
decorazione, o che si mettono intorno all’albero di Natale.
Le stelle pendono dal soffitto
scuro.
Il soffitto scuro sembra cartapesta,
come quella che si usa per fare il presepe. A casa ne abbiamo sempre abusato,
perché facevamo il presepe sul termosifone ed il nostro gatto Pallina (che non
si è mai riconosciuto in quel nome perché l’abbiamo sempre chiamato “micio”
fino alla fine dei suoi giorni), amava sdraiarsi sul laghetto di carta
stagnola, per cui finiva che il presepe stava lì fino a febbraio inoltrato.
Le stelle pendono, il cielo è
fatto di cartapesta scura, i contorni sono netti. Di tutto quello che c’è
sotto. La pianta di anacardi davanti alla mia camera, il tetto di makuti, la testa del ragazzo che guida
il bajaji. Sembra di stare in un telefilm
americano girato solo in interni, quando si capisce benissimo che le scene
esterne sono finte, tu nella macchina e tutto lo scenario intorno si ripete
sempre uguale.
Tutto ha una sua collocazione,
uno spazio fisico e ben definito.
Ben definito come i contorni di
questo K. Contorni tracciati sull’Africa di alluminio dagli Inglesi. E per
questo, il Paese non ha storia. Non ha arte. Aspetta che qualcuno si faccia
sotto, mentre attende l’umidità che sta
per arrivare, e le mucche scarne sono legate con una corda ad arbusti
altrettanto scarni, poco gustosi ed impolverati. Essendo un Paese giovane, deve
farsi le ossa. Come un adolescente, segue gli ormoni, e poco la ragione.
Come tutti gli adolescenti,
questo K. è aggressivo. Aggressivo e ciarliero, desideroso di esplorare, di
parlare con i bianchi che qui arrivano , fino a fare sanguinare le orecchie,
per migliorare l’italiano, rimediare un invito per una birra per la sera, o un
numero di telefono da mostrare per fare vedere che anche io ho un europeo che
mi ha fatto amico, e si interessa a me.
Aggressivo come un animale in caccia. Fiuta la
preda, non importa che sia la più bella, ne fiuta una, ma che potrebbe
benissimo essere quella accanto, la fiuta e la punta. Come fanno i bianchi
esperti con le ragazzine, aggressive e truccate nei loro pesanti abiti di
foggia europea di quart’ordine. Come fanno ancor più le donne mature, mano
nella mano con giovani forti e robusti, la futura forza lavoro di questo K.,
che al contrario sprecano il loro fiato ripetendo meccanicamente frasi sentite
chissà dove che pompano l’autostima a mille.
La natura è aggressiva,
rigogliosa, imponente. Giganteschi baobab, intere distese di verde, ossigeno.
Dicono che anche nella foresta di Arabuko, gli elefanti siano aggressivi.
Piccoli, ma agguerriti. E per proteggere loro e tutti i loro colleghi, che
siano a due o 4 zampe, servono soldi, finanziamenti. Cosa si sono inventati?
Vendono le pupae, mi spiegano al Kipepeo, piccolo museo delle farfalle a Gede,
a sinistra rispetto all’ingresso delle Rovine.
ingresso Kipepeo |
Le pupae rappresentano il secondo
stadio della farfalla, vengono prese nella foresta, controllate, impacchettate
vive, e spedite in Inghilterra, dove si spera che vive, possano avere un’altra
alternativa, possano guardare oltre, invece di farsi ammirare da uno sparuto
gruppo di turisti nelle loro teche.
pupae appese al filo |
Guardare oltre, paranoie non ce
n’è a mangiare con le mani, mi hanno
fatto capire i miei due boys, li ho
invitati al Kalahari perché non sempre possono dire di andare a letto con lo
stomaco pieno, quindi fare poco gli schizzinosi, farsi spruzzare un po’ di
liquido blu, e sentire l’acqua tiepida sulle mani, lavarsele in una bacinella
di plastica, altro che salviette al limone. E mangiare il pollo, la michicha fritta (leggi spinaci), che
sanno di poco, ma hanno un sottile retrogusto di qualcosa, l’insalata di
cipolle e pomodoro, che io rifiuto, ma su cui spruzzano ridendo un specie di
tabasco. Per finire, mi insegnano a masticare l’amarunghi, radice corta e sottile amara da far paura, che
sgranocchiano con gusto mentre guardano la partita, avvolta in un foglio di
giornale. Quando protesto, e strizzo gli occhi come un bambino perché amara,
allora mi lanciano un chewing-gum, insegnandomi a tirare giù la saliva, e
sputare i pezzetti di radice che mi danno fastidio.
Da fuori guardavo la scena, io
loro, le radici sul tavolo, le loro camicie pulite, i loro denti che insieme ai
miei splendevano nella notte, l’unica cosa che ci accomunava, ieri sera, in
quel tavolo traballante che sarebbe stato male assortito agli occhi dei più,
una bianca con la pochette di juta e due kenioti che le facevano vedere cosa
ordinare dal menù scritto in swahili.
Ed in quel momento sembrava non ci fosse
oltre, ed invece ho realizzato che non mi aspettavo niente da una serata così,
invece insieme all’amarunghi, ho
capito che in realtà sto rosicchiando un po’ di vita, un po’ di stelle, un po’
di K.
E.
capelli arruffati, un pò di smorfie, ma spirito alto |
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